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Orso polare

È utile osservare animali reclusi?

 

L’impatto della presenza, privato dell’aspetto più pregnante che è proprio il rapporto di noi umani con esseri così diversi di cui da sempre esaltiamo l’indipendenza e, perché no, la pericolosità, ci consegna una visione trasformata rispetto alla vera natura.

La perdita del significato non solo della salvaguardia ma anche dell’essenza degli animali porta di conseguenza ad una riflessione che dipende dalla condizione degli animali.

Non è negabile che il confinamento procuri delle criticità, la perdita della libertà di movimento permessa negli ambienti esterni non è ricreabile in cattività, le attività degli animali sono ridotte, il comportamento esplorativo non può essere esplicitato, quali che siano, le dimensioni dei recinti non riescono certo a rappresentare gli habitat naturali.

Lo stesso principio degli arricchimenti si presta ad una interpretazione critica: se è ammesso che la messa a disposizione degli arricchimenti serve a migliorare le condizioni di cattività, è evidente il mantenimento non è una situazione buona per gli animali perché altrimenti non ce ne sarebbe bisogno. Pertanto si ritorna al punto principale, cioè che la cattività non è una condizione favorevole per gli animali e quindi ci si deve chiedere se è accettabile il loro confinamento.

L’utilità degli arricchimenti è sostenuta universalmente e non è quasi il caso di citare i motivi del loro utilizzo.

Negli zoo, lo stress è un problema riconosciuto e l’arricchimento ambientale fornisce l’opportunità di ampliare le scelte comportamentali attraverso la complessità dell’ambiente fisico, fornendo sfide cognitive e motivazione appetitiva. (Smith, 2004[1]; Young, 2003[2]; Carlstead, Shepherdson, 2000[3]), così, ad esempio, i pappagalli eseguono più stereotipie in gabbie sterili che in gabbie arricchite. (Meehan et al. 2004)[4]

La riflessione sugli arricchimenti potrebbe rivelarsi basilare poiché è suscitata dall’osservazione degli animali, sono pertanto indicatori diretti delle conseguenze della cattività sugli animali e il fatto che abbiano bisogno di arricchimenti dimostra che non sono “contenti” di quanto gli si offre; considerazione che viene suffragata dal fatto che le, poche, ricerche scientifiche effettuate riscontrano episodi di comportamenti stereotipici.

Un piccolo esempio a sostegno del ragionamento sono le soluzioni che i gestori stessi forniscono riguardo al trattamento, come nel caso degli orsi polari che, quando sono ospitati in zone molto calde, come nel sud Italia, sono forniti di alimenti congelati per contrastare il surriscaldamento: è del tutto evidente che l’arricchimento è una mitigazione di una negatività dell’ambiente vitale, esattamente contrario a quello naturale.

Cioè l’arricchimento non migliora la condizione ma soltanto ne limita i danni.

Elefanti asiatici

Aspetti negativi della cattività sono la limitazione dei movimenti naturali animale, del foraggiamento, dell’alimentazione, del nascondersi, dei comportamenti di fuga e di accoppiamento; la coercizione o l’impedimento dei comportamenti sociali sia intra sia interspecifici. (Price, E.O. 1999[5]).

Il confinamento è sempre più riconosciuto come causa negativa per lo sviluppo cognitivo degli animali, il normale sviluppo sociale, la riproduzione e la salute stessa (Hediger, H. (1964)[6]

E non si può sostenere un “adattamento” dovuto alla riproduzione in cattività. Se non si vuole smentire Konrad Lorenz, riconosciuto padre dell’etologia, si deve ammettere, come sosteneva, che i comportamenti etologici sono scritti nel patrimonio genetico degli animali e i millenni che sono serviti a fissarlo non possono essere dimenticati con qualche decennio di domesticazione. Anche autori recenti, come Mason, ricordano il principio sostenendo che nonostante siano allevati per decine di generazioni in cattività. gli animali soffrono se sono impediti nell’esecuzione di comportamenti altamente motivati[7] (Mason, et al.2001).

In altre parole gli animali allevati in cattività anche per generazioni mostrano una motivazione estremamente elevata a svolgere le attività viste nelle loro controparti selvagge.

Quale che sia la sistemazione adottata non si supera la criticità dell’artificialità dell’ambiente che si ripercuote sugli individui.

Gli erbivori nella vita libera trascorrono la maggior parte del loro tempo in cerca del cibo e i carnivori devono investire notevole energia nell’individuare le prede e nella caccia, in cattività il cibo è normalmente fornito in razioni concentrate molte volte senza indurre comportamenti di ricerca, pertanto la maggior parte del tempo viene trascorsa il modo inattivo.

Lo spazio è estremamente limitato rispetto agli animali che vivono liberi, in particolare per i grandi mammiferi; per esempio il recinto medio di un orso polare è circa un milionesimo dell’area del suo range minimo in natura. (] Clubb, R. & Mason, G. (2003)[8] .

Il pascolo non è disponibile nel 90% dei giardini zoologici europei che mantengono elefanti asiatici (Taylor, V.J. & Poole, T.B. 1998)[9].

Nei carnivori in cattività più è grande la mole dell’animale, più il suo benessere è compromesso dal confinamento (Price, E.E. & Stoinski, T.S. 2006[10] ).

Elefante in cattività

Clubb e Mason affermano che elefanti asiatici e orsi polari sono soggetti a problemi che includono cattive condizioni di salute, comportamenti stereotipati e difficoltà di riproduzione. Le loro indagini si sono concentrate sulla valutazione del benessere degli animali in cattività relativamente ai carnivori in gabbia che hanno stili di vita con ampi territori, con conseguenti vincoli imposti al comportamento naturale di animali sensibili i quali dimostrano stereotipie e mortalità infantile in cattività. Secondo gli autori i risultati indicano che l’allevamento dei carnivori con ampi range vitali (quali leoni, tigri, ecc.) dovrebbe essere sensibilmente migliorato o eliminato gradualmente. (Ros Clubb, Georgia J Mason[11] 2003)

Negli zoo le stereotipie degli orsi e dei leopardi sono più alte negli stabulari più piccoli rispetto a quelli di maggiori dimensioni e gli animali hanno un passo di minore ampiezza (Mallapur, A. & Chellam, R. 2002[12]; Montaudouin, S. & Le Pape, G. 2005[13]).

Studi comportamentali su animali nelle strutture espositive quali zoo e simili hanno evidenziato forme di stereotipie, forme di pacing in elefanti (Kurt e Garai, 2001)[14] e in tigri (Pitsko,2003)[15]

Le stereotipie sono più comuni nei carnivori in cattività durante le ore crepuscolari, quando in natura sono fisiologicamente più attivi (Weller & Bennett, 2001)[16]; parimenti possono intensificarsi stagionalmente – come nel caso dell'orso bruno – in corrispondenza dei periodi in cui l'attività di ricerca del compagno è più sviluppata (Carlstead & Seidensticker, 2000 )[17].

Le percentuali di presenza delle stereotipie variano ampiamente nei carnivori presenti negli zoo, così si è rilevata una media dello 0,16% delle osservazioni in volpi rosse (Vulpes vulpes), del 30% in leoni (Panthera leo) e fino al 60% nelle tigri (Bashaw et al 2003; Clubb & Mason, 2007).

Per quanto riguarda gli elefanti negli zoo, (Clubb e Mason, 2003) hanno riportato il 4% delle stereotipie.

I cuccioli eventualmente nati negli zoo hanno un minore sviluppo mentale e sono più facilmente affetti da stereotipie; ad esempio, allevati in cattività, orsi, primati e pappagalli cenerini mostrano significativamente più stereotipie di quelli allevati dalle madri naturali. (Forthman e Bakeman,1992)[18], (Schmid et al., 2006)[19].

Quindi eventuali figli nati negli zoo non sono più “adattati” alla cattività ma anzi ne soffrono conseguenze peggiori.

Alcuni lavori hanno significativamente relazionato su problemi di salute per gli animali negli zoo. Si è constatata una diversa sopravvivenza tra animali che conducono una vita libera e quelli in condizioni di confinamento; uno studio sulla sopravvivenza media di un campione di 4500 elefanti ha confrontato la durata della vita tra gruppi di elefanti viventi negli zoo, sia nati in cattività sia nati liberi e poi rinchiusi, confrontandola con l'età media della mortalità naturale. Il tasso di sopravvivenza era molto più elevato negli elefanti delle riserve naturali rispetto ai gruppi presenti negli zoo, con una differenza di 20 anni (50 anni di sopravvivenza negli zoo rispetto ai 70 delle riserve naturali, che non vanno confuse con parchi zoo variamente definiti). (Clubb R et al, 2008)[20].

Altri studi, (Kurt e Mar,1996[21]) hanno approfondito il tema della mortalità neonatale negli elefanti asiatici presenti negli zoo, rilevando dati peggiori rispetto alla vita libera.

Le ricerche si riferiscono spesso agli elefanti poiché sono abbastanza diffusi nelle strutture e permettono una raccolta di dati più significativa.

Leone in cattività

È stato osservato che gli elefanti in cattività sono soggetti a obesità e problemi alle zampe e ai legamenti (Kurt e Hartl, 1995[22]), così come sono stati evidenziati disordini di tipo reumatoide e una forma di artrite cronica con zoppia (Clark et a.., 1980[23]), forma abbastanza comune negli zoo e significativamente più rara negli elefanti liberi. (Schmidt, M. 1986[24])

L'immunodeficienza abbassa le difese immunitarie e si è dimostrato che gli elefanti africani trasmettono l'herpes virus endoteliotropo (EEHV), mortale, agli elefanti asiatici negli zoo europei (Fickel, J.2001[25]) In natura non avviene perché vivono in continenti diversi. Altri problemi sanitari derivano dal fatto che è difficile evitare il contatto tra la fauna locale – attratta dal cibo – e gli animali degli zoo; ciò può facilitare la diffusione delle malattie. In Svizzera alcuni anni fa si è avuta una forma dovuta al virus del cimurro, probabilmente trasmesso da animali selvatici (martore) che ha colpito leoni e tigri (D.L. Myers , et al, 1997[26]), nonostante gli zoo seguano le regole della biosicurezza per impedire contagi di questo tipo.

Si potrebbe obiettare che si tratta di piccoli numeri, occorre però sempre ricordare che gli zoo sono strutture private nelle quali i ricercatori possono entrare solo se ottengono il benestare della gestione ed è complesso portare avanti lavori che mettano in dubbio l’attività che ha concesso l’ingresso. Molto più facile che si propongano ricerche a favore degli zoo, per evidenti motivi di convenienza.

E non si tratta di malafede, semplicemente si possono osservare gli animali senza mettere al centro la loro entità.

Il punto da ricordare è che l’ambiente non è solo da intendersi come disposizione di area ma come insieme delle attività che sono svolte in esso e pertanto sia negli zoo tradizionali sia in quelli più dimensionati sia nelle strutture definite bioparchi e simili, le dimensioni, le attività possibili vanno comparate non con i vecchi zoo sottodimensionati ma con gli spazi e gli habitat naturali degli animali.

Sarebbe necessario comparare sempre le situazioni artificiali con quelle naturali: se anche con l’introduzione di arricchimenti, di accorgimenti particolari si riesce o riuscisse a contrastare la manifestazione delle stereotipie e altri indicatori di malessere, si dovrebbe considerare che si tratta di mitigazioni che non riproducono l’ambiente naturale ma di soluzioni individuate per temperare le negatività e impedire che il richiamo etologico manifesti il disagio degli animali, cioè se le soluzioni appaiono soddisfacenti sono pur sempre delle compensazioni rispetto ai bisogni naturali degli animali che non sono soddisfatti ma sopiti.

Pertanto rimane al giudizio umano se tale indirizzo è accettabile o no rispetto alle imposizioni fatte agli altri viventi.

Vi sono poi degli elementi da ulteriormente osservare, due fattori rientrano tra quelli a maggior rischio: i ricoveri notturni e la possibilità di riposo.

Nei ricoveri notturni gli animali passano di fatto la maggior parte del loro tempo; essi sono invisibili per gli spettatori; laddove se ne possono individuare le dimensioni spesso dimostrano un sottodimensionamento per la mole e il numero degli esemplari. Spazi inadeguati o insufficienti costituiscono inevitabilmente una negatività che si ripercuote sul benessere degli individui.

Ippopotamo in uno zoo

Occorre poi riflettere sulla possibilità di riposo permessa durante la giornata, non dimenticando la funzione richiesta agli animali da parte delle strutture ospitanti.

Nel comportamento naturale gli animali hanno propri ritmi di vita, per cui la maggiore attività si esplica all’alba e al tramonto, dedicando l’altra parte del giorno al riposo e la notte al sonno, tranne gli animali notturni.

Il tempo del riposo coincide esattamente con le ore in cui negli zoo e simili sono previste le presenze dei visitatori e, conseguentemente, non può essere garantito agli animali un riposo in luogo tranquillo e appartato, nascosto rispetto alle presenze estranee.

Gli animali non ignorano certo lo stimolo dei visitatori e reagiscono con attenzione e interagendo per quanto nelle loro capacità specie specifiche alle presenze ma così facendo non possono certamente dedicarsi al riposo.

In un caso, il recinto delle tigri prevedeva un avvallamento che le nascondeva dalla visione delle persone e durante l’orario di apertura era difficilissimo osservare gli animali che riposavano tranquilli.

In un’altra struttura, le tigri sono andate incontro ad un destino negativo, perché non era stata garantita la possibilità di rifugio diurno per lasciarle allo sguardo dei visitatori.

Molte volte si vedono animali sostare di giorno davanti alle porte dei rifugi notturni in attesa che si aprano per riposare.

La necessità di riposo è basilare, eppure negli zoo, bioparchi e simili non è possibile che sia rispettata pena la perdita di specificità della struttura che pone la visione degli animali come giustificazione per la presenza dei visitatori. Si potrebbe obiettare che il tempo del riposo è solo spostato, in quanto terminato l’orario di visita gli animali possono riposare, però non si può negare che tale spostamento è una violazione del bisogno etologico che richiede il riposo durante le ore diurne.

Per le specie notturne la presenza negli zoo sarebbe da definire incompatibile poiché il loro ritmo circadiano è esattamente opposto a quello richiesto dalle strutture. Che si insista sulla loro presenza è un assurdo che potrebbe giustificare il pensiero che i gestori, di fatto, non si interessano dell’etologia degli animali.

Un altro punto a supposto favore degli zoo sarebbero le attività scientifiche, come opportunità per formazione e ricerca. Anche in questo caso si deve approfondire il significato che si intende attribuire al concetto di ricerca. La ricerca, l’approfondimento della conoscenza è normalmente indirizzata verso un obiettivo utile ad accrescere il sapere posseduto; pertanto l’indirizzo della ricerca dovrebbe essere lo studio della natura degli animali in libertà e i loro comportamenti etologici. È conseguente che vi sia una differenza tra una situazione di vita libera e una confinata in quanto, in questa seconda ipotesi, non si potranno certo osservare i comportamenti liberi ma solo quelli resi possibili dall’ambiente vitale condizionato.

Procioni in gabbia

Non a caso le osservazioni citate in precedenza si basano sul confronto della vita libera degli animali rispetto a quella della cattività.

La possibilità di avere il controllo continuo degli animali permette di osservare, valutare, diagnosticare eventuali patologie e di intervenire con le terapie ricavandone dati sia sulle malattie sia sui risultati delle cure. Anche queste conoscenze però sono condizionate dalla situazione in quanto non si è in grado di affermare con sicurezza che le stesse patologie siano presenti in natura e nuovamente ci si trova in una condizione alterata che, di fatto, non contribuisce a migliorare lo stato degli animali liberi.

Per quanto concerne la ricerca scientifica non si può dire che le strutture di cattività degli animali apportino conoscenze utili ma forniscono solamente nozioni relative agli animali confinati, che non portano giovamento, quindi, per accrescere la conoscenza degli individui liberi.

Vi è poi la discussione sull’esaltazione dell’artificialità e il valore educativo inerente.

Un pensiero indotto nei visitatori, soprattutto i giovani, è che l’artificio possa servire a ricostruire la naturalità distrutta.

È un’idea che è controproducente. Se come esseri umani non riusciamo a preservare la natura è inevitabile che accettiamo le conseguenze del nostro operato: le estinzioni delle specie sono solo la copia di quanto avviene in molte altre situazioni. Probabilmente è questo il destino dell’umanità, incidere sulla trasformazione dell’ambiente in modo esattamente proporzionale alle capacità tecniche che alla fine prevalgono sulle forze naturali. Gli zoo, i bioparchi e simili non possono certo aspirare a ricostruire la natura mentre l’insegnamento che le persone e i giovani potrebbero ricavarne è la possibilità di “salvare” la natura distrutta, obiettivo irraggiungibile con un approccio da “museo” che contrasta con l’unica strada percorribile per la salvaguardia che è quella della trasformazione dell’economia non assoggettando la natura alla tecnologia ma andando verso una vera difesa dell’ambiente e delle risorse naturali.

Il messaggio educativo degli zoo e dei parchi zoologici è contraddittorio rispetto alla realtà in quanto parrebbe comunicare che sia possibile la conservazione della natura, all'interno di strutture artificiali; come se l'artificiale potesse sostituire il naturale. Di fatto si capovolge la realtà, perché la conservazione è solamente il mantenimento dello stato naturale e non il ricreare la naturalità con l'artificio. Inoltre, poiché gli animali negli zoo hanno un patrimonio genetico innaturale, come detto, il messaggio è totalmente diseducativo poiché si promuove il concetto che la distruzione della natura possa essere rimediata con l’artificialità costruita dall’uomo, esattamente il contrario di un principio di vera educazione ambientale.

È una questione di significato delle parole; con salvaguardia ci si riferisce alla salvezza in termini di condizione preesistente mentre in questo caso si realizza solamente una presenza minimale che non permette la ricostituzione quo ante; il termine di fatto indica, in questo caso, un esercizio tecnico scientifico che non incide sulla realtà naturale.

In questo modo però si rafforza l’idea in chi partecipa di un possibile futuro nel quale l’artificio potrà sostituire la naturalità.

Il messaggio che ne deriva è fuorviante perché lascia intendere che nel futuro sia possibile coniugare le soluzioni tecnologiche artificiali con la naturalità.

Come detto in precedenza, al momento sembra ipotizzabile un futuro sempre più tecnologico che porterà al superamento di molti aspetti della vita come era conosciuta e parimenti si avranno iniziative che proporranno il ricordo di quanto si è perso o trasformato. Nel caso però di esseri viventi, quali gli animali, ci si deve chiedere se il loro mantenimento in cattività, non potendo più rimetterli in libertà, possa giustificare l’imposizione di sistemi di vita contrari alla loro etologia.

Gorilla in cattività

Il messaggio educativo, come detto, fuorviante cerca di valorizzare una funzione degli zoo e simili indirizzata alla conservazione mentre in effetti l’unica fruizione per le persone è l’osservazione di animali provenienti da zone geografiche lontane, cioè rimane principale la motivazione alla base della nascita ottocentesca degli zoo: la visione di animali esotici per persone che non hanno la possibilità di vederli altrimenti.

Si trasmette ugualmente un messaggio antropocentrico per cui l’uomo, essere superiore, ammira esseri “inferiori” che mostrano la loro “bellezza” o stranezza. Rafforzando la convinzione che gli altri esseri viventi siano a disposizione dell'essere umano che ne può fare uso a suo piacimento, metterli in vetrina ma anche usarli in qualsiasi modo gli sembri opportuno.

Al giorno d'oggi sono più utili i filmati, che permettono di vedere gli animali nel loro habitat e quindi di apprezzare la varietà, la bellezza e la complessità dei loro comportamenti. Dal punto di vista dell’educazione gli zoo, oggettivamente, presentano una visione distorta della realtà, con situazioni che non corrispondono alla vita libera e diffondono una convinzione errata sui sistemi di conservazione della biodiversità.

 

Conclusioni

La riflessione sulle strutture di zoo e simili presenta evidentemente delle differenze di approccio tra voci a favore e contrarie ed è difficile pervenire ad una sintesi degli opposti che si possa dire condivisa, essendo le motivazioni anche interpretabili rispetto all’idea di base, poiché, come si è detto in precedenza, sono gli esseri umani che giudicano le conseguenze vissute dagli animali.

In ogni discussione relativa al mondo animale si deve tener conto che sono sempre e solo gli esseri umani che possono esprimere un parere; dopo le ricerche di Lorenz si potrebbe aggiungere che, volendolo, si hanno strumenti per interpretare le esigenze degli animali, tramite l’etologia; tuttavia la lettura è sempre opera della specie umana.

Quindi il punto focale rimangono le modalità che si utilizzano per emettere i giudizi sugli altri esseri viventi ed è inevitabile che altri fattori possano influire sull’esito finale del giudizio.

Al momento attuale si constata che la definizione dell’entità animale sia oggetto di teorie ideali diverse per cui accanto alla lettura dell’animale come portatore di diritti, teoria dei diritti animali, si contrappongono posizioni che impostano il rapporto con gli altri esseri viventi sulla base della tutela del loro benessere; dovendosi ritenere escluse dal ragionamento posizioni di chiara oggettivizzazione degli altri viventi sulla scia del pensiero cartesiano.

Senza voler prendere posizione, si deve constatare che la differenza è basilare poiché nel primo caso, sapendo che l’obiettivo è molto ambizioso e non rapidamente raggiungibile, il giudizio su ogni situazione metterà al centro l’animale mentre nell’altra opzione il punto focale rimane la preminenza degli esseri umani che decidono quali sono i bisogni essenziali da rispettare nel rapporto con gli altri viventi.

Nel caso dei diritti si analizzeranno le situazioni di vita degli animali sulla base della loro essenza, per cui ogni diminuzione dei loro bisogni fondamentali risulterà una negazione, che potrà essere giudicata più o meno grave, mentre se il fine è la mediazione tra interessi umani e bisogni degli animali il giudizio è ribaltato poiché diventa positiva qualsiasi concessione fatta.

La contrapposizione tra diverse posizioni ideali origina proprio dal principio che si pone alla base del ragionamento e l’atteggiamento pratico ne è conseguente. Coloro che danno priorità ai diritti degli animali mettono al centro il valore inerente del soggetto per cui ogni costrizione rappresenta una negatività. Il giudizio che ne discende è quindi inevitabilmente negativo a prescindere quali che siano le motivazioni che sorreggono la situazione in esame, gli zoo e simili nel caso.

Ne deriva che nelle le riflessioni sugli zoo basate sui diritti degli animali risulta ininfluente qualsiasi tipo di motivazione a sostegno, proprio perché conta l’entità dell’animale e si constata una criticità altrimenti irrisolvibile a causa di una contrapposizione ideale, poiché il principio dei diritti degli animali non è rappresentato dalla tutela del benessere.

Si potrebbe obiettare che il principio dei diritti degli animali è ben lungi dall’essere raggiunto in modo omogeneo e completo, osservazione che deve però tener conto che la strada intrapresa è chiaramente una scelta progressiva per cui, di volta in volta, si pongono degli obiettivi che appaiono più facilmente raggiungibili; gli zoo e simili sono un aspetto della vita degli animali che risulta essere più facilmente oggetto di revisione radicale.

Nel principio di accettazione di posizioni ideali diverse, è proprio una differenza di approccio che si deve considerare per comprendere le posizioni di opposizione alle strutture di confinamento degli animali esotici.

 


Enrico Moriconi, medico veterinario, è Garante per i Diritti degli Animali della Regione Piemonte e collaboratore di Shan Newspaper

 

Zoo, un’analisi critica - prima parte

 


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22 dicembre 2021